sabato 7 giugno 2014

Cinquantanni fa la legge Merlin aboliva le "case chiuse". Viaggio nella Treviso dei bordelli.

Ci andavano tutti. Anche il prete, e non per confessare. Ma quanto a parlarne... Resta quel racconto di Gigi Meneghello che, bambino, scoprì che la vecchia abitazione di famiglia era stata bordello. «Non so gnente, mai stà», disse il papà. Ma alla successiva domanda, «era bello?», rispose: «Orca! Tuto un spècio». Di bordelli, nella Marca, ce n'erano molti. Più d'uno a Conegliano, Montebelluna. E Oderzo, Castelfranco... Ma quelli epici erano a Treviso, dove l'intera Cae de Oro, nei pressi del tempio di San Nicolò, era un'Amsterdam. A 50 anni da quel 20 settembre 1958 che... chiuse le case chiuse, è difficile capire come, a quei tempi, andare in bàito fosse normale. Gli uomini ci andavano, le consorti fingevano di non sapere. O di non capire quando, l'omo decideva di fare un salto in città «par comprarme un capèl». Il cappello lo comprava. Anche. Il dopoguerra fece giustizia dalla parte del santo (Nicolò): i bombardamenti, la speculazione, la legge Merlin, operarono il miracolo del disinnesco della «Cae», quartiere ultrapopolare che era stato l'ombelico (vizioso, ma gli ombelichi sono così) di Treviso. Calle dell'Oro, via Castelmenardo, via delle Oche (ora via Toniolo), la città tra il Duomo e San Nicolò, ospitavano i bàiti più famosi. A Dotto Comisso dedicò il racconto d'addio alle signorine. Ma erano il Baito de'a Bianca (angolo Calle dell'Oro e via delle Oche) a essere il più noto. Alla porta c'era la Nene, cui Bepi Stocco, nicoloto, dedicò un capitolo nel libro «Gente delle calli». La Nene, in cambio di 20 centesimi, consentiva ai non maggiorenni di entrare «per dare un'occhiata». Il profumo di peccato bastava sei mesi. Due salottini per attendere: lì aspettavano le pensionanti, quattro, i cui nomi (anzi, i nomi delle tre più belle) ancora si tramandano: la bellissima Diana, la Maruska vestita di velo, la Elena pietosa. C'era poi il casino della Ada, proprio a metà della Calle dell'Oro (entrata defilata per maggiorenti e... clero - in via Isola di Mezzo). La Ada, toscana, era sposata Camporini. Il marito fu grande benefattore della Calle, ma il prete sconfessò la mensa per gli orfani che Guido mise in cortile dopo il bombardamento del 7 aprile 1944: commercio di corpi e tutela di anime non sono mai andati in sintonia. E a poco vale ricordare che, quando il prete arrivava par fare i so comodi come gli umani (ma lui transitando per da drio e protetto da un paravento) i flanelloni che si trovavano in salòn, per nulla inconsapevoli, lo sbeffeggiavano con un sonoro «sialodàtogesucrìsto». A venti metri dal lupanare della Ada c'erano altri tre casini. Quello della Menta, di la cui facciata esterna era un piatrellato verde lucido che giustificava il nome. Qui l'ingresso a chi era sensa na s-ciona in berta, ovvero un centesimo in tasca, era interdetto, perchè «cuesto xè un casìn par vaschi». Davanti alla Menta c'era il casino della Leda. E anche qui si pagava molto e il trattamento era a cinque stelle. Poi c'era il Piccolo Eden, vicinissimo alla Leda, che, stando alle testimonianze di Bepi Stocco e del grande Mirko Trevisanello, che ci ha lasciato tra gli altri libri, un monumentale «Cae de Oro» aveva la particolarità di ospitare «donne d'una certa condizione, fenmmine dell'alta società di Treviso, sposate e magari con figli», che poi ricomparivano in piazza, a passeggio, sottobraccio al poro e caro beco. Ci andavano, in genere, di mattina, quando il povero allocco era in ufficio. Anch'esse esercitavano in una sìmari (gergo nicoloto: camera), ma ad aspettarle lassù c'era già qualcuno a loro noto. Quella camera era, magari, un po' meno brulla di quella che Comisso immortalò, dismessa, il 20 settembre del '58. Non c'erano, naturalmente, solo questi casini. Epico era, ad esempio, quella in via Roggia. E un altro era accanto alla Pescheria, affacciato sull'antica corte-chiostro di San Parisio. E non c'erano solo i bàiti ufficiali, quelli con il carabiniere fuori per smistare i siori da un ingresso discreto e i poareti dall'altro (uno di quei carabinieri è ancora vivo e narrante). C'erano anche le «case», quelle che ospitavano una o due donne, già clandestine e non controllate, di ogni livello
e prezzo, dalle singole perbene (quasi) della Mianese alla mitica Maria Orbèta, che, pure con l'occhio convergente, era una Mata Hari de noaltri. E poi c'era la «libera professione» che si esercitava, come oggi si fa lungo le Statali, allora sulle mura. Da cui la famosa frase delle mamme ai bambini che chiedevano soldi per qualche sfizio: «Varda che mi i s-chei no i trovo mia su e mura».
( da La Tribuna, 29 agosto 2008)
 
 

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